Gli allevamenti intensivi sono una forma di allevamento praticata soprattutto dalle grandi aziende zootecniche dei Paesi sviluppati, che utilizzano tecniche industriali e scientifiche per ottenere la massima quantità di prodotto al minimo costo. La finalità è quella di abbattere i costi di produzione della carne, allevando grandi quantità di bestiame in uno spazio minimo e poco illuminato, utilizzando appositi macchinari e farmaci che permettono di ridurre anche i controlli sui capi allevati da parte del personale. Molti habitat vengono distrutti per creare campi coltivati e pascoli destinati all’industria agroalimentare intensiva e la fauna originaria rischia l’estinzione. Tutto ciò determina un effetto di deforestazione e desertificazione del suolo. Ne consegue che la produzione di carne, latte e uova incide in modo pesante sui gas serra immessi nell’aria: il 18% delle emissioni deriva proprio dagli allevamenti intensivi. Infatti, dai processi digestivi degli animali si generano metano e ammoniaca che, attraverso l’accumulo dei liquami, si libera nell’aria combinandosi con altri inquinanti. Tale ammoniaca liberata nell’atmosfera è causa anche delle piogge acide e, quindi, anche dell’eccessiva acidità del suolo e delle acque. Gli allevamenti intensivi sono responsabili in Italia di oltre il 65% dell’ammoniaca immessa nell’ambiente, più dei veicoli a motore.
Le deiezioni degli animali allevati inquinano anche l’acqua. Infatti, i liquami, ricchi di fosforo, azoto, potassio, ormoni ed antibiotici vengono sparsi illecitamente nel suolo contaminando le acque superficiali e le falde acquifere. In Italia si producono oltre 10 milioni di tonnellate all’anno di reflui derivanti da allevamenti intensivi. L’inquinamento idrico, poi, determina il fenomeno di eutrofizzazione, che genera una crescita anomala di organismi vegetali nelle acque, con la conseguente diminuzione dell’ossigenazione dell’acqua e quindi con la morte di molte specie animali di acqua dolce. Al problema della contaminazione delle acque si aggiunge quello del consumo eccessivo di acqua, «l’oro blu» del mondo. Per produrre un solo chilogrammo di carne sono necessari fino a 2.000 o 3.000 litri di acqua, necessari sia per il consumo diretto da parte del bestiame, ma anche per la coltivazione dei mangimi e per allontanare le deiezioni dalle stalle. Un altro aspetto drammatico dell’allevamento intensivo è l’enorme consumo di cereali per nutrire bovini e altri animali, a cui non corrisponde un’efficiente conversione in proteine alimentari. Un animale produce, cioè, meno di 50 Kg di proteine, consumando più di 790 kg di proteine vegetali. Tutto il mangime che viene prodotto per sfamare gli animali degli allevamenti intensivi potrebbe risolvere in parte la denutrizione della popolazione mondiale. La maggior parte degli antibiotici da noi ingeriti proviene proprio dagli allevamenti intensivi; ciò aumenta il problema della resistenza agli antibiotici.
L’Osservatorio Nazionale Amianto sottolinea che l’emergenza Coronavirus è stata fondamentale per portare alla luce il problema degli allevamenti intensivi. Infatti, ad oggi, vi è la consapevolezza del fatto che l’inquinamento atmosferico, derivante anche dagli allevamenti intensivi, può aver contribuito al propagarsi del Covid-19. Anche lo stile di vita del bestiame rende la qualità della carne e dei suoi derivati di qualità inferiore rispetto ai prodotti derivanti dai metodi tradizionali.
Secondo l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale la riduzione della produzione di carne non può essere affidata esclusivamente alle buone abitudini alimentari dei consumatori; devono essere progettati interventi programmatici di natura politica e istituzionale a livello locale e nazionale, per limitare e controllare l’attività imprenditoriale che deve adattare i propri modelli produttivi di agricoltura ed allevamento agli standard ecologici. Inoltre, bisogna utilizzare i fondi pubblici destinati al finanziamento dell’allevamento intensivo per sostenere la transizione verso modelli sostenibili che valorizzino le piccole imprese di produttori locali.
Giulia Verzulli